TARIK BERBER

 

SEVEN SISTERS

a cura di Andrea Dusio

15 ottobre – 21 novembre 2020

Il Riccardo III. Murder in the Cathedral, e le sue edizioni economiche con la cover rossa e nera. Il remake di “Suspiria” di Luca Guadagnino, e le musiche che ha preparato   Tom Yorke per il film, immerse in bicromie di colori fluo. Sono queste le suggestioni che accompagnano la visione dei teleri di “Seven Sisters”, ispirati al sobborgo di Tottenham prossimo a Victoria Lane, dove esiste un antico anello di piante storiche, forse risalente addirittura ai Celti, di certo riportato in una mappa del 1619, e dunque conosciuto per lo meno dall’inizio dell’età moderna. Pochi anni dopo lo storico William Bedwell riporta la notizia dell’esistenza in quel luogo di un antico noce, circondato da una serie di olmi, ciascuno dei quali sarebbe stato piantato in memoria delle sette sorelle, o forse delle sette figlie di Robert the Bruce, proprietario dei terreni nel XIV secolo. Il noce sembra sia stato tagliato nel corso del XVIII secolo, e quando a metà Ottocento venne creata l’arteria di collegamento tra Tottenham e Camden Road la sì chiamò Seven Sisters Road. Fu poi la volta della stazione dei treni e di quella della metropolitana, a consolidare il toponimo nella memoria dei londinesi. Le sette piante sono state rinnovate più volte, l’ultima nel 1996, quando a ripiantarle furono cinque famiglie locali, ciascuna delle quali aveva sette figlie. La ricchissima simbologia del numero sette, esistente anche prima delle grandi religioni politeiste, che l’hanno accolta e rielaborata, all’interno della nostra cultura laica rappresenta soprattutto il compimento o l’esaurimento di un ciclo. La personale di Tarik Berber coincide con il settimo inverno dal suo arrivo a Londra e con il primo trascorso a Milano, dove si è trasferito con l’intento di allacciare nuovi rapporti con il sistema locale dell’arte e di misurarsi con un contesto meno frammentario e vorticoso di quello londinese, “Seven Sisters” è a oggi il lavoro più ambizioso del pittore bosniaco. È per molto versi una serie dedicata al paesaggio, anche se l’alternarsi di figure femminili e maschili costituisce l’elemento iconico e narrativo ricorrente da un dipinto all’altro. Parlo di paesaggio e penso ad Albrecht Altdorfer e agli illustratori dei  Tacuina Sanitatis, alla sapienza botanica dei maestri tardo gotici e dei miniatori ricordati da Johan Huizinga ne “L’autunno del Medioevo”, ai disegnatori che accompagnavano le esplorazioni di Alexander von Humboldt e alle composizioni di Joris Hoefnagel. Tarik ha più a che vedere con ciascuno di essi che con la maniera di reinventare la pittura di paesaggio dei maestri contemporanei, da Morlotti al già citato Schifano. E la ragione di questa ascendenza lontana è nel modo in cui costruisce le immagini di straordinaria densità di queste tele, partendo da una serie di disegni che abbiamo deciso di esporre all’inizio della mostra, dai quali proviene la straordinaria texture grafica di queste tele, che si situano davvero a un punto d’intersezione sino a oggi inedito tra esplorazione di una maniera di reinventare l’incisione e pittura. Credo che molti di coloro che vedranno queste opere si soffermeranno soprattutto sullo scorrere sulle pareti del MAC di un formidabile fiume rosso, cercando di cogliere i cambiamenti continui del colore, che fanno pensare a una trasmutazione alchemica, e mi ricordano un testo cinematografico squisitamente consonante a questa mostra, quel “Cuore di Vetro” di Werner Herzog in cui un maestro vetraio perde il senno per arrivare al segreto del color rubino (e intanto ripenso alla meravigliosa monografica sui vetri degli Asburgo e degli Strasser vista a Schloss Ambras due estati fa). Ma se l’intensità e la modulazione tonale del colore colgono il carattere meditativo di questa produzione, realizzata per lo più a Zadar nel luglio/agosto del 2019, chi si avvicinerà alle opere, che in qualche caso abbiamo provato a comporre nei modi degli antichi polittici, tra “pala” centrale e scomparti laterali, potrà perdersi nell’osservazione lenticolare delle macchie di vegetazione, in cui ricorre la memoria di quei bassi arbusti tra cui giocava Tarik da bambino, e che lasciano attaccate agli abiti le loro inflorescenze, così che i bambini, lontano dalle madri, devono staccarle da soli una a una prima di tornare a casa la sera. È dunque la “Madonna del Krs” a rappresentare il cuore di questo ciclo, che porta il nome di un luogo londinese, ma è stato concepito nell’infuocata estate della Dalmazia, e comincia da quest’indimenticabile rosso, per come ci può apparire in una giornata di luce abbacinante, e termina con il “Il giovane Proust  osserva un quadro di Giovanni Bellini”, che è quasi un innesto figurativo di “Pop is not dead” nella cromia di “Seven Sisters”, a segnare la contiguità tra le due serie. Quell’estate contiene la memoria di sei inverni, e ho chiesto ad Alice Barale, studiosa di estetica che si è occupata di Warburg e di Benjamin, e che ha scritto della Melencolia di  Dürer, di dedicare un approfondimento al mood brumoso e malinconico che attraversa queste tele, e che a me le fanno sembrare il compimento di un periglioso Winterreise, che Tarik ha percorso senza cedimenti, marciando sotto la neve con la tempra di uno dei due ussari scavezzacollo che si sfidano ne “I duellanti”, mantenendo la sua fede nell’intensità e nella purezza dell’esperienza della pittura, come l’unico corpo a corpo con la vita e con la realtà possibile per un artista, mettendosi totalmente al servizio del colore, sino a concepire il disegno come una sorta di ricamo di precisione infinitesimale che si riconosce sotto le coltri dei suoi rossi, di sole accecante e di cieli invernali che bruciano in un solo istante, con l’ultima luce del giorno.