Yoon Si-Young

 

Milano dagli occhi a mandorla

Abbiamo già incontrato Yoon Si-Young alla galleria Previtali. Una sua bella veduta notturna di Milano spiccava nella mostra che, alla fine dell’anno scorso, raccontava vizi privati e pubbliche virtù della metropoli lombarda. In quell’occasione lo spettatore restava un po’ spaesato quando, staccando lo sguardo dalle luci vibranti del quadro, lo posava sulla didascalia a lato e leggeva il nome dell’autore. Inequivocabilmente orientale. Allora qualcuno vagava con lo sguardo tra la tela e quelle vicine per capire dove fosse il trucco. Perché davvero quella pittura potentemente figurativa, quel realismo dalle atmosfere un po’ cupe, alla Martin Scorsese, è quanto di più lontano si possa immaginare dalla sensibilità orientale. Yoon Si-Young è coreano. Ma certamente è un coreano anomalo. Per il suo percorso, innanzitutto, che lo porta all’Università dell’arte di Ke-Myoung ma per studiare Pittura Occidentale, preferendo quindi olio, acrilico e tecniche miste al più classico inchiostro su carta di riso della sua tradizione. Una scelta che in qualche modo ne segna il destino, stimolando una serie di curiosità. Quelle che lo porteranno, nel 1992, a trasferirsi in Italia, per studiare arte all’Accademia di Brera ma anche per vedere dal vivo i capolavori che ha imparato ad amare dalle riproduzioni sui libri. Nelle aule di Brera, Yoon Si-Young si appassiona ad un realismo dalla precisione minuziosa, che gli permette di rendere con pochi sicuri tratti di pennello l’espressione attenta di una donna o quella vagamente annoiata di un ragazzo con gli occhiali da sole e le mani in tasca, persi nel magma di una folla anonima. La consistenza soffice dei capelli, la grana dell’epidermide, la superficie liscia di un giubbotto di pelle sono riprodotti con un’efficacia sorprendente ma anche con una capacità di sintesi che non scade mai nell’iperrealismo fotografico fine a se stesso, e che si stempera in una pennellata più vibrante, verrebbe da dire impressionista, nella serie dei quadri musicali e soprattutto nelle vedute naturali e urbane, che sono tra i suoi più alti raggiungimenti. Yoon Si ci regala, dunque, una serie di realtà quotidiane. Ma poi, una volta create, maliziosamente ce le nega, ponendo tra queste e noi spettatori un filtro. Quel vetro appannato e poi grossolanamente ripulito al centro che è diventato inconfondibile segno di riconoscimento della sua pittura. Quello che ci fa avvicinare ai suoi oli su tela qualche centimetro in più, fin quasi a sentire l’odore della pittura. Perché la tentazione – fortissima – è quella di posarvi la mano e completare la pulitura, così da poter svelare anche i dettagli celati ai margini del quadro. Ottenuto ricoprendo la pittura ad olio con acrilico bianco diluito in acqua, quel vetro appannato è un ostacolo che ci intriga e che ci incuriosisce. Che ci spinge a riflettere sulla distanza invalicabile che esiste sempre – ma che spesso dimentichiamo – tra noi e l’opera d’arte. Yoon Si sostiene di crearlo per mantenere qualcosa di istintivo, astratto e gestuale in una pittura a tutti gli effetti figurativa e realistica. E sicuramente quell’addensarsi di goccioline così casuale e quell’occultare i lati del quadro racconta di un lirismo e di un’indefinitezza tutti orientali. Ma forse dietro quel vetro appannato, in quell’intravedere più che vedere la realtà, c’è anche un po’ di tutti noi. Prigionieri nelle incombenze della quotidianità. Spesso incapaci di guardare al di là dell’ovvio e di cogliere la bellezza sublime che si nasconde anche in una notte milanese, nel chiacchierare rilassato di una coppia sotto i portici illuminati dai lampioni o nella corsa pigra di un taxi, le cui luci, vibranti, scompaiono pian piano nel buio.

Alessandra Redaelli