SILVIO LIVIO ROSSI


MOSTRA ANTOLOGICA SILVIO LIVIO ROSSI 

LA SOGLIA INQUIETA DELLA RAPPRESENTAZIONE

a cura di Elena Pontiggia
Galleria Previtali, arte contemporanea 10 ottobre – 21 dicembre 2019

 

INCONTRO – DIBATTITO ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BRERA MILANO

AULA MAGNA 10 DICEMBRE 2019 ORE 11,00 

INTERVENGONO: FILIPPO DEL CORNO, ELENA PONTIGGIA, STEFANO ZUFFI

Di Silvio Livio Rossi mi parlava spesso Vincenzo Ferrari, che da giovane era stato l’aiutante di studio e l’allievo prediletto di Usellini. A quell’epoca Rossi era assistente del maestro all’accademia di Brera e il rapporto con Ferrari, che aveva trentacinque anni meno di lui, non era stato dei più semplici. Tuttavia era stato lui, Silvio Livio, a proporre al collega Domenico Manfredi di chiamare a insegnare presso la sua cattedra di pittura quel ragazzo. Ricordava Ferrari: “Nel 1972 l’assistente di Usellini, Silvio Livio Rossi, mi ha cercato per propormi di insegnare con Manfredi, e così sono tornato a Brera. Rossi è stato generoso, quali che siano state le gelosie professionali che poteva aver provato per me, per il mio ruolo di studente “privilegiato” dal maestro”1 . Era un artista “partecipe”, diceva ancora Vincenzo Ferrari, parlando di Livio. E quell’aggettivo, “partecipe”, mi torna alla mente guardando le opere esposte ora alla Galleria Previtali. Mi sembra il termine più adatto per dar conto di una pittura come la sua, inquieta, attenta a molte direzioni di ricerca, eppure mai eclettica, se per eclettismo si intende un cambiamento di stile un po’ facile e disimpegnato. Silvio Livio Rossi attraversa invece il secolo – la sua è una vicenda lunga, non solo anagraficamente – avvicinandosi alle tendenze di volta in volta più vive con un atteggiamento coinvolto, con una immedesimazione affettuosa: la stessa con cui guarda una donna, un paesaggio o un oggetto. Li osserva, cioè, con un amore delicato che non diventa mai una pietas troppo eloquente, ma lascia trasparire ugualmente la sua tenerezza. Una marina, un gruppo di case in lontananza, una donna che legge, il bianco intenso di un fiore: i suoi sono temi semplici, quotidiani, ma ravvivati da un sentimento che non diventa mai sentimentalismo, anzi ha qualcosa di asciutto e introverso, eppure (anzi, proprio per questo) risulta così vivo. Il percorso di Silvio Livio Rossi – o Livio, come si firma – inizia precocemente, quando l’artista è ancora adolescente e vive a Mantova, dove era nato nel 1906. Nel 1920, quando ha solo quattordici anni, dipinge i primi paesaggi, tra cui una malinconica veduta di barche, come allora se ne vedevano tante nei laghi che circondano la città. Nel 1923, quando ha sedici o diciassette anni, dipinge i Giardini pubblici di Mantova nei modi di un impressionismo o, per meglio dire, di un naturalismo interessato ai giochi e ai contrasti di luce. Nello stesso 1923 dipinge però anche un’opera di straniata suggestione come Il mio granaio, dove nel tema realista si insinuano accenti simbolisti. E’ un normale granaio, appunto, ma l’inquadratura insolita, vista attraverso grandi travi, e l’aprirsi della finestra sullo sfondo come un tabernacolo, infondono nel tranquillo soggetto una cadenza più misteriosa. Sempre del 1923 è una Figura vestita di nero, che sembra vicina al “Novecento” nella volumetria, anche se forse è influenzata dal conterraneo Gorni. Avrebbe potuto accontentarsi, Silvio Livio, di questi esiti giovanili ma già maturi e invece, quando nel 1931 si trasferisce da Mantova a Milano, è attratto dal futurismo. Conosce Marinetti e verso il 1934 disegna composizioni incentrate su forme rarefatte nel vuoto. Sono opere che guardano a Prampolini, ma poco più tardi si ispirano anche all’astrattismo del “Milione”, che in quel periodo era influenzato dall’essenzialità geometrica di Vordemberge-Gildewart. Nel marzo 1934 partecipa alla mostra “Omaggio dei futuristi venticinquenni ai venticinque anni del futurismo” che si tiene alla Galleria delle Tre Arti, e presenta quattro opere (Composizione n.1, Composizione n.2, Composizione n.3, Composizione n.4). E’ una mostra significativa, dove durante la serata inaugurale Depero tiene un discorso programmatico e Munari legge il Manifesto dell’aeroplastica futurista, firmato per il gruppo milanese da Furlan, Regina, Ricas, Manzoni e Munari. Livio non firma il manifesto, come del resto non ne firmerà mai, forse perché era animato da un desiderio di indipendenza espressiva. Marinetti comunque nel 1939, nel catalogo della III Quadriennale di Roma, lo ricorda fra gli artisti della “aeropittura stratosferica cosmica biochimica”, di cui il maggior esponente è Prampolini2 . Livio tuttavia non si accontenta di questa lusinghiera considerazione e nei primi anni quaranta, in un’età in cui di solito non si studia più (nel 1943 ha trentasette anni), frequenta le lezioni di Funi a Brera. Fra i suoi compagni di corso ci sono Peverelli e Dova. Ricorda Alik Cavaliere, un altro allievo di Funi: “L’Accademia di Brera è stata, negli anni nei quali l’ho frequentata, un grande studio collettivo. […] Durante gli ultimi anni di guerra, quando più accaniti e continui divennero i rastrellamenti repressivi, Brera era un miraggio, un’oasi, un sia pur fragile rifugio, presidiato dal colonnello della milizia fascista Achille Funi che difendeva la ‘sua’ accademia come una fortificata cittadella ideale di un’arte ‘classica’”3. L’influenza di Funi si avverte presto nelle composizioni di Livio, che diventano solide e statiche (Natura morta, 1943) . Può essere interessante confrontarle con quelle di Morlotti, che è anche lui allievo di Funi in quel periodo. Morlotti, che è vicino a “Corrente”, dipinge bucrani stravolti, già picassiani; Rossi invece non ama la deformazione e rimane fedele a una lezione classica, quasi morandiana, di armonia. Vertice di questo suo momento è la Natura morta con bottiglia, 1942, in cui gli oggetti si dispongono nello spazio secondo peso e misura, con rigore matematico, come su un’invisibile bilancia. Di questi anni è anche un intenso Nudo, dove l’eco della statuaria classica (la reminiscenza degli “appoggi” nei marmi antichi) si traduce in un elemento quotidiano, nel panno bianco che splende accanto alla carnagione rosea della modella. Non si tratta però di una direzione di ricerca univoca, perché sempre nel 1943 troviamo fra le opere di Livio una piccola tempera dalla sintassi tardo-cubista. Fra il 1944 e il 1945, poi, come sappiamo soprattutto dal catalogo della mostra che tiene nell’aprile 1945 alla Galleria Internazionale di via del Gesù, a Milano, Rossi dipinge paesaggi dolorosamente onirici, memori di Carrà ma segnati da accenti più cupi (Paesaggio mantovano, 1945); nature morte più desolate di quelle precedenti (Natura morta con bottiglia verde, 1945), figure dimesse e sole (Uomo con cappello e Uomo con bicchiere, 1944; Uomo con chitarra, 1945). Sono tutti temi che rispecchiano la drammaticità del momento, anche se evitano ogni espressionismo. Commovente, in particolare, è l’Uomo davanti al cavalletto, 1945. E’ un autoritratto di pittore dove, forse per la prima volta, a essere nudo è l’artista, non la modella, e dove la nudità è il simbolo di una condizione indifesa, spiritualmente prima ancora che fisicamente. Con Funi, tra l’altro, Livio lavora fianco a fianco nel 1952 ad alcuni affreschi a Bergamo, come quelli del cinema San Marco e della Sala della Gerusalemme Liberata nella Banca Popolare di Bergamo. La forma classica e il mondo mitologico di Funi però non lo appagano, come si vede nelle opere di questo periodo. Nell’ Autoritratto, 1954, per esempio, la linea diventa più incerta e fragile, la pennellata più agitata e il volto sembra spezzato dalla colata della luce. Nelle figure di Livio, insomma, si insinua una sottile tensione. L’artista, del resto, non è insensibile a quanto accade intorno a lui, alle tendenze del moderno che vanno dall’astratto all’informale, come non lo era stato negli anni trenta al futurismo. Così, nelle opere della metà degli anni cinquanta, lascia dilagare liberamente il colore, come nell’acquerello Paesaggio con chiesa, 1955. E alla fine del decennio, in quadri come Marina, 1959, dialoga con gli astratto-concreti del Gruppo degli Otto. Raccolti intorno a Lionello Venturi nel 1952, gli astratto-concreti, da Birolli a Cassinari a Santomaso, praticavano una pittura sospesa fra astrazione e naturalismo, dove gli elementi del paesaggio si stemperavano in ritmi musicali e, per contro, le forme astratte si caricavano di echi naturalistici. Non diversamente Marina è un insieme di piani e linee, in cui però si indovina il soggetto che ha ispirato l’artista. Anche la matericità, su cui si imposta gran parte dell’informale, interessa Livio. Paesaggio antico, 1973, rappresenta un paesaggio fluviale con una cupola barocca sullo sfondo, ma in realtà è un mosaico di frammenti materici, stesi con una pennellata densa e agitata. Analogamente Composizione, 1974, è una tarsia di forme in cui l’immagine, che pure si riconosce ancora, non nasce dal disegno ma dal colore. Negli anni settanta, dunque, l’artista continua a sperimentare nuove vie espressive, confrontandosi con quanto osserva nel panorama pittorico che lo circonda. Non sono però queste forme-colore l’ultima parola di Rossi. A partire dagli anni ottanta, quando lui stesso è sulla soglia degli ottant’anni, torna a nudi quasi classici, dimostrandosi in sintonia col recupero dell’antico e perfino col gusto, in senso lato, della citazione che percorre tutto il decennio. Le Marie piangenti, 1982, per esempio, evocano la Pietà Provenzale di Enguerrand Quarton, 1460, ora al Louvre. L’opera di Silvio Livio Rossi ci appare allora, nei suoi esiti migliori, come una incontentabile ricerca sui linguaggi e le possibilità della pittura: una ricerca che non si ferma a nessun risultato, rimescola le carte e getta sempre, nuovamente, i dadi. E’ una ricerca che, con le sue continue metamorfosi, evita la ripetizione e la sigla. Ed è una ricerca animata dalla consapevolezza che, come ebbe a dirmi una volta Emilio Vedova: “Non ci sono certezze in arte. Spesso mi chiamano maestro: maestro qui, maestro là. Ma io domani vado in studio e non so da dove iniziare. Devo ricominciare tutto daccapo”.

Elena Pontiggia

 

 


1 Elena Pontiggia, Conversazione con Vincenzo Ferrari,  in Vincenzo Ferrari. Dialogo con gli artisti, catalogo della mostra (Fondazione Stelline, Milano, 13 dicembre 2001-20 gennaio 2002), Milano 2001, p.15-16

2 F. T. Marinetti, Mostra futurista di aeropittori e scultori, in catalogo della III Quadriennale d’Arte Nazionale, (Roma, Palazzo delle Esposizioni, febbraio-luglio 1939),  Roma 1939, p.185

3 A. Cavaliere, Lo studio, Milano 1990, p.6

 

 

 

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